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L’intervento di Massimo Bianchi per il Giorno della Memoria: “Il ricordo è un imperativo morale”

L’intervento di Massimo Bianchi per il Giorno della Memoria: “Il ricordo è un imperativo morale”
  • PubblicatoGennaio 26, 2024

È stato Massimo Bianchi uno dei protagonisti del consiglio comunale di oggi: il professore dell’università di Siena ha tenuto un discorso, presentando il Giorno della Memoria e dando, di fatto, una lezione sul passato.

“La memoria è l’esercizio che abbiamo fatto anche poco fa – spiega Massimo Bianchi – quando abbiamo ricordato il Lucio Pace: un consigliere molto attivo nella vita politica cittadina, proveniente da una realtà in provincia di Palermo ma perfettamente integrato con le problematiche e le dinamiche locali. Fino agli ultimi anni, e fino a quando la salute glielo ha permesso, è stato promotore e animatore di movimenti civici. Bene ha fatto il presidente Ciacci a chiedere un minuto di raccoglimento e di silenzio per onorarne la memoria.

Secondo alcuni studiosi, le parole “memoria” o “ricordo” sono due termini che ricorrono più frequentemente all’interno dei testi biblici, poiché la memoria coincide con la storia; storia alla quale si attribuisce un significato universale e globale, come passaggio dal passato verso il presente e dall’oggi al futuro, attraverso un meccanismo di trasmissione che ha come funzione fondamentale quella di assicurare la sopravvivenza dell’identità di ogni popolo, gruppo, o etnia.

La memoria è un imperativo morale prima ancora che storico: si dice infatti, a proposito dell’Olocausto, di “ricordare, perché ciò non accada mai più”.

Come ogni anno, alla vigilia della Giornata della Memoria si riaccende il dibattito sull’utilità del 27 gennaio e come sempre occorre ribadire l’importanza storica di evitare la distorsione della Shoah che è una delle manifestazioni dell’antisemitismo contemporaneo. Gli ultimi anni, fra le diverse e varie stagioni della memoria, sono infatti il tempo della minimalizzazione e banalizzazione della Shoah, un atteggiamento ancora più pericoloso della negazione. Viceversa, occorre ribadire la centralità e l’importanza di studiare, approfondire e scoprire nuovi frammenti della deportazione e del genocidio nazifascista: un comportamento fondamentale che fa parte della nostra cultura civica e che motiva le ragioni del nostro proiettarci verso il futuro. La Giornata del 27 gennaio è lì a ricordarci che, dopo la distruzione degli ebrei d’Europa, la storia è andata in una nuova, diversa e opposta direzione: si è costruito infatti un pensiero forte sulla discriminazione, sul razzismo e sull’esclusione che ha ispirato la Dichiarazione dei Diritti Umani, il processo di costruzione dell’unità europea e anche la nostra Costituzione. Non ricordare la Shoah, infatti, concorrerebbe a uno svuotamento del “mai più” che le società democratiche hanno dichiarato dopo Auschwitz.

Attualmente uno dei temi dominanti la nostra società è quello delle migrazioni e della conseguente integrazione. Ebbene, a ben guardare, proprio la presenza ebraica in Italia e in Europa costituisce un modello ottimale di integrazione: in particolare in Italia essi giunsero in gran parte provenienti dalla Spagna da cui erano stati espulsi nel 1492 e si stabilirono un po’ dovunque, soprattutto nella “tollerante” Toscana; in particolare essi si inserirono nel mondo del lavoro, ricercando – pur tra ricorrenti episodi di intolleranza e di persecuzione – parità come leali cittadini. Quindi, alla data fatidica del 1938, essi erano da secoli inseriti nella società e nella storia del nostro Paese, contribuendo positivamente, come tanti altri, a creare e a far progredire l’Italia. E ciò in ossequio anche all’etica tipicamente ebraica che dà un peso fondamentale alla attività pratica e all’impegno sociale; sono da ricordare esempi di professioni intellettuali, ma non va dimenticato che questa etica abbraccia ogni forma di attività, anche la più umile (si pensi a tale proposito ai due noti esempi, quello del talmudista Hillel, vissuto nel primo secolo, che esercitava il mestiere di ciabattino, o quello del filosofo Spinoza che si guadagnava da vivere come molitore di lenti). In pratica, per l’etica ebraica, il lavoro era visto e vissuto come strumento di integrazione, come connessione di diritti e di doveri e come attività svolta nell’ambito di regole.

In particolare, dopo la cosiddetta “emancipazione” del 1848, quando il Regno di Sardegna emancipò gli ebrei piemontesi all’interno di un più ampio processo che si sviluppò in tante altre nazioni con l’estensione di alcuni diritti civili alla popolazione ebraica, come ad esempio il diritto alla cittadinanza, si diffuse così tra gli ebrei italiani un sentimento di gratitudine e di forte impegno per un ulteriore inserimento nella società; essi cercarono cioè una legittimazione come cittadini a pieno titolo, tradottasi anche in una attiva e diretta partecipazione sia al Risorgimento che alla Grande Guerra del 1915/1918; si ricordino a titolo di esempio i casi del Sindaco di Roma Ernesto Nathan e dei presidenti del Consiglio Luigi Luzzatti e Sidney Sonnino.

Purtroppo, le leggi antiebraiche del 1938 (appena venti anni dopo la fine del primo conflitto mondiale) distrussero quel comune cammino, pacifico e proficuo al tempo stesso, con l’iniqua discriminazione rivolta contro cittadini che, come abbiamo visto, da secoli – in termini sia di diritti che di doveri – erano inseriti nella società e nella storia del nostro Paese. Quel modello di integrazione non venne allora accolto, anzi fu negato e distrutto; ma, pensando all’oggi (e al domani), si può auspicare che l’Europa voglia riproporlo nei confronti dei nuovi arrivati, sia pure con le modifiche necessarie per adeguarlo ai nuovi tempi.

La memoria acquista poi un significato più profondo specialmente quando si è chiamati a realizzare un compito proprio degli storici, ovvero quello di restituire al territorio in cui viviamo le conoscenze e i risultati delle nostre ricerche che, partendo dallo studio delle grandi questioni storiche fondamentali, finiscono poi per declinare nella prospettiva di osservazione della comunità locale. Tenterò quindi nel mio intervento di evidenziare anche alcuni passaggi di come si tradussero a Siena le persecuzioni contro cittadini italiani, rei del solo fatto di professare la fede ebraica.

Alla data del 22 agosto 1938, i 235 ebrei censiti a Siena e provincia risultavano perfettamente integrati nella vita sociale: le famiglie ebree appartenevano in particolare alla media e piccola borghesia, alcune si erano guadagnate un certo prestigio per l’impegno in talune professioni. Indipendentemente dalla loro fede politica, gli ebrei senesi, che avevano partecipato attivamente sia al processo di unificazione che alla prima guerra mondiale, si consideravano italiani a tutti gli effetti e nessuno avrebbe mai immaginato cosa il regime stava preparando per loro. La politica di discriminazione degli ebrei iniziò con la pubblicazione del Manifesto in difesa della razza e proseguì colpendo inizialmente gli ebrei stranieri, molti dei quali erano studenti, i quali non poterono più iscriversi alle scuole italiane. Fu poi la volta degli ebrei italiani, espulsi dalle scuole, dall’insegnamento, dall’esercito, dalle amministrazioni e dalle cariche pubbliche. Anche a Siena i primi a subire le conseguenze di questa politica discriminatoria furono una ventina di studenti ebrei stranieri espulsi dall’Università e rimasti senza possibilità di lavoro. Seguirono poi le espulsioni di ebrei senesi che furono costretti a lasciare le scuole, l’insegnamento, le attività lavorative presso l’amministrazione comunale e il Monte dei Paschi.

Proprio la totale integrazione degli ebrei senesi nella realtà locale rese ancora più assurda ai loro occhi la promulgazione delle leggi razziali e i vari provvedimenti amministrativi che seguiranno per escluderli dalla vita civile. Le leggi razziali provocarono nella comunità ebraica reazioni di vario tipo tra chi si chiuse in sé stesso cercando di adattarsi alle nuove difficoltà, chi invece trovò in questa nuova situazione ragioni per un antifascismo che andava maturando, chi si piegò con la speranza di salvare la propria famiglia. In questo quadro sono da leggere alcune conversioni al cattolicesimo alla ricerca di ogni possibile sostegno nella rete di amicizie e conoscenze con i non ebrei.

Al riguardo c’è da dire che a Siena come nel resto d’Italia numerosi furono i casi di solidarietà verso gli ebrei; in fondo bastava continuare a frequentarli per rendere esplicito il dissenso verso le leggi razziali. Ci fu anche chi, tra i non ebrei, si spinse oltre, assumendo gli ebrei licenziati dalle amministrazioni pubbliche, continuando a servirsi di loro come professionisti o come commercianti, rendendosi disponibili a occultare parte dei loro beni. Da parte delle autorità senesi l’applicazione delle leggi razziali fu in linea con quanto avvenne nel resto del paese anche se le modeste dimensioni della città fecero registrare casi in cui esponenti del potere avvertirono del pericolo imminente, magari perché loro amici, alcuni ebrei senesi.

Molti ebrei senesi, per fortuna la maggioranza, riuscirono a evitare la cattura e trovarono rifugio presso conoscenti, religiosi o cittadini che, pur rischiando di persona, accettarono di aiutare i perseguitati. Ci furono casi particolari in cui il consiglio di fuggire arrivò direttamente dalle autorità fasciste della città: il che offre un altro spunto di riflessione sul senso di appartenenza della comunità al tessuto sociale cittadino e sul contesto di piccolo centro, dove tutti si conoscono, entro cui maturò il dramma della deportazione.

Tutto questo induce a riflettere che le discriminazioni originate dalla legislazione del 1938 – da cui tutto ebbe inizio – non solo erano deprecabili e degne di indignazione, come giustamente affermato ed espresso in molte e diverse sedi e occasioni, ma ebbero anche l’effetto pratico e negativo di depauperare l’Italia di valide energie, ereditate da Paesi che ne beneficiarono praticando invece apertura e tolleranza. Possiamo forse trovare una analogia storica nel provvedimento di espulsione del 1492 dalla Spagna che – in nome di una identità nazionalistica basata sulla “purezza del sangue” – distrusse con violenza quella culla di altissima civiltà creata molti anni prima dalla pacifica convivenza culturale tra ebrei, cristiani e islamici. In altre parole, in assenza della identificazione di una “razza italiana” (e tanto meno “ariana”) abbiamo qui uno dei tipici esempi di quel razzismo su base essenzialmente culturale (cioè, di persecuzione contro chi la pensa diversamente) efficacemente definito da un sociologo Etienne Balibar come una sorta di “razzismo senza razza”.

Ma vorrei avviarmi a concludere questo intervento con una nota di positività. Infatti, anche in quei momenti oscuri e di prevalenza della malvagità si verificarono atti di generosità, di aiuto e salvataggio da parte di molti, anche a rischio della loro vita. Erano non ebrei, spesso persone qualsiasi, che ritenevano quasi ovvio compiere atti di solidarietà; non eroi epici, ma eroi “normali” animati da spirito di solidarietà.

Era quindi giusto e doveroso che i salvati esprimessero, anche in forma ufficiale, la loro gratitudine. Per questo, come molti sanno, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme ha istituito, fin dal 1962, un riconoscimento a favore di coloro (non ebrei) che hanno agito in modo eroico, anche a personale rischio e senza interesse personale, per salvare molte vite umane dal genocidio nazifascista in Europa, anche di un solo ebreo (secondo il motto del Talmud che “chi salva una vita, salva il mondo intero”).

Vorrei infine concludere con le parole di Moshe Bejski, l’ideatore della onorificenza di “Giusto tra le Nazioni”, che definiva sé stesso come “un pescatore di perle che si tuffa nel passato per scoprire un tipo di uomini che nei tempi oscuri del mondo permettono di credere ancora nelle possibilità dell’uomo”. Salvato anche lui dal genocidio, grazie al tedesco Schindler che lo aveva inserito nell’elenco dei nominativi che riuscì a salvare da Auschwitz (in quella “lista” che dà il nome al celebre film), aveva “intuito che la esperienza di un genocidio produce una doppia responsabilità: insieme al dovere di ricordare le vittime, esiste quello di non dimenticare chi ha rischiato la vita per salvarle”, ovvero che “ogni gesto di responsabilità, di resistenza, anche il più piccolo, va difeso con la memoria”. È questa l’eredità maturata da Moshe Bejski e che ha voluto lasciare a tutti noi: e cioè, che “dopo avere attraversato Auschwitz, si comprende assai meglio come ogni essere umano è custode della vita di almeno un altro essere umano”.

Grazie per l’attenzione”.

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Redazione