Covid-19, è possibile identificare rapidamente i pazienti a più alto rischio

È stato pubblicato sul “Journal of Translational Medicine” uno studio multidisciplinare che dimostra come i ricoveri per Covid-19 siano stati determinati anche da fattori genetici specifici della popolazione residente, in particolare dal genotipo dell’Antigene Leucocitario Umano (HLA), e che questo potrebbe quindi facilitare l’identificazione rapida dei pazienti a più alto rischio. La ricerca è stata coordinata dal professor Antonio Giordano, docente di Anatomia e Istologia Patologica dell’Università di Siena e direttore dell’Istituto Sbarro per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare di Philadelphia, con un gruppo composto da epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.
Gli scienziati si sono mossi nei giorni più drammatici dell’emergenza Covid-19, riunendosi per ipotizzare strategie per contrastare il microrganismo mortale e chiedendosi: come si può scegliere chi vaccinare per primo? Chi è a più alto rischio per sviluppare la malattia in forma grave? Chi deve essere protetto in ordine prioritario?
I ricercatori hanno iniziato a verificare se l’alto numero di ricoveri in alcune province italiane potesse essere associato a determinanti genetici specifici della popolazione residente. Hanno quindi condotto uno studio ecologico, guidato da Giovanni Baglio dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, utilizzando i dati di ricovero per Covid-19 del Dipartimento della Protezione Civile e i dati genetici dal più ampio registro locale disponibile: il Registro Italiano Donatori di Midollo Osseo. I campioni dei donatori, infatti, sono normalmente analizzati (tipizzati) per determinare il genotipo dell’Antigene Leucocitario Umano (HLA) e verificare la compatibilità tissutale. Le molecole HLA, note anche come Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC), sono quelle che possono essere riconosciute come estranee (non-self) dal ricevente in caso di trapianto d’organo e determinano il rigetto dell’organo in assenza di una compatibilità adeguata. Gli HLA, infatti, sono estremamente diversi tra gli individui.
“La ragione di questa diversità – dice Rita Emilena Saladino, esperta dell’Unità di Tipizzazione Tissutale dell’Ospedale Grande Metropolitano di Reggio Calabria – è che il ruolo degli HLA/MHC è quello di presentare le proteine microbiche al nostro sistema immunitario per scatenare una potente risposta specifica contro il microorganismo a cui queste proteine appartengono. Dal punto di vista evolutivo, ciò significa che all’interno della popolazione ci saranno individui in grado di montare una risposta immunitaria efficace, mentre altri alla fine soccomberanno alla malattia”.
Associando semplicemente i dati HLA e l’incidenza di Covid-19 nelle province italiane, Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’Ospedale Grande Metropolitano ‘Bianchi Melacrino Morelli’ di Reggio Calabria, e i colleghi hanno identificato i geni HLA di classe I, HLA-C01 e HLA-B44, come permissivi all’infezione da SARS-CoV-2. Lo studio basato su un approccio di tipo “ecologico” è stato pubblicato nel 2020 sull’“International Journal of Molecular Sciences” ed è stato il primo a mostrare il potenziale di un metodo così economico e rapido per identificare gli individui a rischio, nonostante i limiti intrinseci dell’approccio ecologico.
Per confermare l’analisi, Correale e colleghi hanno ulteriormente studiato l’associazione tra HLA e l’incidenza di Covid-19 durante le successive ondate pandemiche e poi hanno condotto uno studio “caso-controllo” analizzando i genotipi HLA di pazienti ricoverati per Covid-19 in due regioni italiane, la Campania e la Calabria. Lo studio è stato possibile grazie alla collaborazione con Roberto Parrella, capo dell’Unità di Malattie Infettive Respiratorie, e il suo team dell’“Azienda Ospedaliera Specialistica dei Colli” di Napoli.
I risultati, pubblicati a marzo sul “Journal of Translational Medicine”, hanno mostrato che l’associazione tra HLA-C01 e HLA-B44 con il rischio di Covid-19 grave variava fino a scomparire dopo la prima ondata pandemica, come ci si poteva aspettare considerando la co-evoluzione sia del coronavirus che della risposta immunitaria. Al contrario, l’espressione dell’allele HLA-B*49 è emersa come un fattore protettivo ed è stata confermata dallo studio caso-controllo successivo in Campania e Calabria.
“I nostri studi – conclude Francesca Pentimalli, professoressa di Patologia all’Università LUM di Bari e all’Istituto Sbarro – suggeriscono che l’approccio ecologico, basato su dati pubblicamente disponibili, può essere utilizzato in emergenza come un metodo rapido ed economico per determinare le priorità nella gestione dei pazienti e durante le campagne di vaccinazione”.